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SULLE UNIONI OMOSESSUALI

(intervista pubblicata ottobre 2015 in Ha Keillah, Bimestrale ebraico, organo del Gruppo di Studi Ebraici di Torino)

 

- Il testo della Torah preso alla lettera pare esprimere un divieto assoluto per l'omosessualità maschile. C'è una tradizione alakhica che consente interpretazioni diverse?

 

H.F.C.: Intanto va detto che, come spesso avviene nella Torah, è già abbastanza complesso comprendere il significato strettamente letterale del verso “E con un maschio non giacerai giacimenti di donna, è improprio” (Lev.18:22). Cos’è un “giacimento di donna”? Una lettura assolutamente letterale, adottata da alcuni, potrebbe essere quella di proibire il giacere con un uomo faccia a faccia, che è considerata la posizione classica del rapporto eterosessuale. Oppure si potrebbe trattare della proibizione di penetrazione, che però non escluderebbe nessun altro tipo di affettività o di espressione sessuale fra uomini. Questa lettura mi pare coerente con il fatto che la Torà non parla di omosessualità femminile, probabilmente perché solo l’atto penetrativo fra uomini era visto come problematico. O ancora, sarebbe possibile tradurre letteralmente la parola mishcav come “giaciglio” (tale termine è usato regolarmente nella Torah con questo significato), con il risultato di leggere “con un maschio non giacerai [su] giacigli di donna”, nel senso che un uomo non dovrebbe unirsi con un altro uomo sullo stesso giaciglio ove giace con la sua compagna, perché era considerata cosa sconveniente. Queste possibilità di lettura sono tutte basate su un’interpretazione letterale del passo biblico, che è piuttosto ambiguo nella sua formulazione. Vero è che tradizionalmente si è preferito leggere il passo come una proibizione assoluta. Ma qualsiasi lettura, anche letterale, deve prendere in considerazione anche il contesto. Levitico 18 si apre con un divieto generale di riprodurre gli usi pagani egiziani e cananei. Siccome relazioni omosessuali di tipo cultuale erano presenti in tali culture, ha senso pensare che il divieto si riferisca solo alla sfera rituale, in quanto espressione tipicamente pagana. Questa contestualizzazione acquisisce ancora più senso quando si nota che il verso precedente a quello sul rapporto omosessuale (Lev. 18:21) proibisce il sacrificio di bambini alla divinità cananea Molech. Il contesto del passo è quindi orientato verso la sfera rituale, che mi pare un dettaglio non banale.

 

- C'è una tradizione alakhica o basi alakhiche che consentono o potrebbero consentire il matrimonio tra persone dello stesso sesso o una qualche forma di legittimazione delle loro unioni?

 

H.F.C.: E’ una domanda complessa, che in questa sede è impossibile sviscerare in modo soddisfacente. Ma vorrei ricordare in modo conciso e schematico alcuni elementi di base che potrebbero avere una certa importanza nello sviluppo di una visione normativa differente.

 

-          In un passo talmudico [Nedarim 51a], l’espressione toevà, speso tradotta come “abominazione”, che per svariate ragioni io considero più corretto tradurre come “improprietà”, viene letta come contrazione di toè attà va, “Erri in essa”. Alcuni commentatori ritengono che l’erranza è quella di uomini eterosessuali che tralasciano le loro mogli per cercare rapporti omosessuali. Basandosi su questo, alcuni rabbini oggi considerano che il divieto valga quindi solo per uomini eterosessuali, il cui dovere sarebbe quello di procreare con delle donne. Secondo tale lettura, la proibizione non sarebbe relativa a un certo tipo di sessualità in quanto tale, ma semplicemente in relazione al pericolo che essa potrebbe rappresentare per la stabilità familiare. Peraltro questa lettura contiene in filigrana un elemento a mio avviso importante. La constatazione che uomini sposati possano essere attratti da altri uomini è un riconoscimento implicito di una certa “fluidità” dell’identità sessuale, che chiaramente viene guardata con sospetto perché, per quanto scomoda e inquietante per alcuni essa sia, è un dato di fatto.

 

-          La Torà non chiede di stare immobili nelle vie di YHVH, ma di procedere in esse: “Camminerai nelle vie di YHVH” è un’espressione che ritroviamo a più riprese nella Torà, che ci ricorda come le vie di YHVH prevedono un divieto di sosta costante. In esse si scorre, non si sta. Per rimanervi è quindi necessaria una certa capacità di movimento, e una velocità minima.

 

-          In conformità a quest’ultimo principio, quando alcune leggi bibliche sono state considerate inaccettabili, esse sono state reinterpretate dai rabbini. Per fare qualche brevissimo esempio, la Torah richiede di mettere a morte un figlio che si ribelli ai genitori, ma il Talmud spiega che tale legge è solo teorica. La Torah spiega che l’anno sabbatico annulla i debiti, ma i rabbini constatarono che le persone non prestavano più soldi all’avvicinarsi dell’anno sabbatico, temendo di perderli. Quindi il saggio Hillel ideò il Prosbul, documento che trasferisce al rabbinato la possibilità di riscuotere i debiti che il privato cittadino non poteva recuperare. Esempi di questo genere sono numerosi. Come dice la scrittrice femminista ortodossa Blu Greemberg “Quando vi è una volontà rabbinica, c’è una via halakhica”. Nel mondo antico l’omosessualità era spesso vista come una forma di promiscuità spesso praticata da eterosessuali che usavano altri uomini come sostituti della donna abusando di una posizione di superiorità. Un classico esempio era la pederastia nel mondo greco-romano, vera e propria istituzione culturale che vedeva l’adulto approfittare della propria posizione sociale dominante per richiedere favori sessuali a giovani di status sociale inferiore. Tale visione ha impregnato tutta la società moderna, Ma questo tipo di relazione in realtà ha poco a che vedere con quella che noi oggi chiamiamo omosessualità, ossia la volontà di due persone adulte di condividere una vita comune costruendo un futuro insieme. Oggi si conosce un tipo di omoaffettività che, andando ben oltre la semplice sfera sessuale, anela a stabilità, fedeltà e monogamia. Quindi il cuore del problema è quello di capire se, con una visione diversa dell’omosessualità, visione che oggi è condivisa da (quasi) tutti, non sia il caso di leggere il passo biblico come in alcuni esempi succitati, in modo tale da allontanarsi definitivamente dall’omofobia che ha caratterizzato e ancora caratterizza la nostra cultura. I Maestri hanno insegnato che, al di là delle leggi, vi sono i principi verso i quali le leggi devono tendere, e uno dei più tradizionali è “E farai quel che è retto e che è efficace agli occhi di YHVH” [Deut. 6:18], che è solitamente letto [cf Rashi ad.loc.] come un’esigenza meta-legale di rigore etico che va al di là delle singole leggi, il cui spirito può facilmente essere aggirato e pervertito anche osservandole, come Nachmanide fa notare. Oggigiorno quello che è retto è il fatto di riparare i secoli di soprusi che le società, solitamente impregnate di pregiudizi derivanti dalle élites religiose, hanno imposto agli omosessuali, e nello stesso tempo di ispirare uno sguardo nuovo su di essi.

 

- Quali correnti o denominazioni ebraiche nel mondo e in particolare in Europa celebrano matrimoni ebraici tra persone dello stesso sesso?

 

H.F.C.: Spesso in questo campo si tende a fare generalizzazioni che sono però inaccurate. In generale esiste nei movimenti progressisti dell’ebraismo mondiale (Liberal/Reform e Massorti/Conservative) una volontà di celebrare cerimonie di un qualche tipo per coppie dello stesso sesso. Ma sono i singoli rabbini a scegliere come comportarsi, e gli atteggiamenti rabbinici sono assolutamente trasversali. Negli USA, dove tutte le correnti ebraiche sono generalmente più aperte al cambiamento, all’interno del movimento Reform quasi tutti i rabbini celebrano matrimoni omosessuali, mentre nel movimento Conservative/Massorti alcuni celebrano matrimoni, altri celebrano una cerimonia alternativa, e altri ancora nulla. In Europa solo una minoranza dei rabbini Reform celebra unioni omosessuali, mentre praticamente nessun rabbino Massorti/Conservative lo fa.

Il paradosso è che in Europa, sia in ambito Reform che Conservative/Massorti, molti rabbini che non celebrano tali cerimonie desidererebbero farlo, ma sono dissuasi (talvolta in modi energici) dalle autorità laiche dei movimenti, che tendono a essere teoricamente progressiste ma in pratica temono l’incomprensione del loro pubblico, che si tradurrebbe in un calo di membri all’interno delle comunità. Sottolineo che quando parlo di autorità laiche non mi riferisco alle organizzazioni internazionali, che generalmente incoraggiano atteggiamenti molto progressisti, ma alle autorità delle singole comunità, che chiaramente hanno più da perdere qualora operino scelte che rischierebbero di essere incomprese da molti dei loro membri.

E’ importante anche ricordare che alcuni rabbini ortodossi, come Steven Greemberg, ritengono che sia possibile celebrare matrimoni omosessuali rimanendo all’interno dell’ortodossia, cosa che lui ha fatto.

 

- Ci sono comunità ebraiche che offrono qualche forma di pubblico riconoscimento alle coppie omossessuali pur non definendola matrimonio?

 

H.F.C.: In generale nel movimento Massorti/Conservative, una buona parte dei rabbini che acconsentono a celebrare un’unione omosessuale non lo fanno sotto forma di matrimonio, ma preferiscono un altro tipo di cerimonia, una sorta di patto di alleanza, che è un rito specificamente creato per queste occasioni, chiaramente differenziato da un matrimonio. La Halakhà non vieta di creare espressioni rituali nuove, specie se esse non si sostituiscono a quelle tradizionali, ma vanno solo a colmare dei vuoti esistenti. Per esempio in tutto il mondo ebraico vengono regolarmente elaborate preghiere per rispondere a situazioni particolari, come preghiere per persone tenute in ostaggio, o in risposta a catastrofi naturali. Preghiere di questo genere sono sempre esistite. E’ possibile ritenere che nel nostro caso la creazione di una cerimonia diversa corrisponda anche a una volontà di non imitare il modello eterosessuale a tutti i costi. Questa può essere peraltro anche una lettura alternativa pertinente del passo biblico, giacché evita di celebrare l’unione fra due persone dello stesso sesso nello stesso modo usato per una coppia eterosessuale.

 

- Qual è la tua posizione personale? Come ti sei regolato nel corso della tua carriera rabbinica e come ti regoli oggi?

 

H.F.C.: Io ho sempre fatto parte dei rabbini che sarebbero stati d’accordo con la celebrazione di queste unioni. Ciò detto, non mi è stato mai chiesto direttamente di farlo, altrimenti probabilmente avrei acconsentito, malgrado la chiara disapprovazione delle autorità laiche dei movimenti per i quali lavoro in Francia.

In linea generale, basandomi su quanto esposto, sarei per una cerimonia non matrimoniale, che corrisponde anche a un non voler imitare il modello eterosessuale a tutti i costi. Come detto sopra, questa può essere anche una lettura pertinente del passo biblico, perché si eviterebbe di celebrare l’unione fra due persone dello stesso sesso nello stesso modo usato per una coppia eterosessuale. Ritengo importante il fatto di riconoscere e celebrare positivamente le differenze, che la legge ebraica tende a non negare, ma anzi ad affermare e regolare di conseguenza. La normativa prevede, per esempio, che mentre nella posa quotidiana dei Tefillin, la Tefillà del braccio si porta normalmente sul sinistro, una persona mancina la leghi sul destro. Mi pare anche che il fatto di voler imitare modelli eterosessuali sia meno rispettoso per l’identità omosessuale, e ritengo che l’ebraismo dovrebbe incoraggiare l’elaborazione di modelli alternativi.

 

- Sei stato rabbino in Italia e oggi in Francia, due Paesi molto diversi tra loro nella pubblica legittimazione di unioni tra persone dello stesso sesso. Queste differenze influenzano le comunità ebraiche? Hai notato rilevanti differenze di mentalità tra gli ebrei italiani e francesi?

 

H.F.C.: Le generalizzazioni sono pericolose, ma paradossalmente ho l’impressione che i francesi siano più a disagio con queste cose, perlomeno al di fuori di certi ambiti, come quello artistico. In particolare poi, a partire dagli anni ’60 l’ebraismo francese è in massima parte animato da ebrei di origine nordafricana, che hanno rivitalizzato la Francia ebraica, ma che generalmente per ragioni di radici culturali hanno posizioni estremamente conservatrici su argomenti legati alla famiglia, come la parità dei sessi o l’omosessualità. In Italia la popolazione ebraica mi pare culturalmente più aperta su questo tipo di argomenti.

 

In guisa di conclusione, mi si permetta di aggiungere che la ragione per cui il popolo ebraico nasce in Egitto è quella di conoscere da vicino l’abuso e il sopruso, in modo tale da evitare di perpetrarlo e di essere dalla parte di coloro che rischiano di subirne. Gli omosessuali, uomini e donne, ne hanno subito abbondantemente e continuano a subirne regolarmente ovunque. Ritengo sia un dovere religioso contribuire alla riparazione di questo fatto gravissimo, e operare realmente attraverso l’azione sociale, politica ed educativa, per orientare le nostra società verso una comprensione diversa di queste persone e di queste unioni. Questa secondo me è una vera e propria mitsvà, una responsabilità religiosa obbligatoria. Vero è che questo non passa necessariamente attraverso un’espressione cerimoniale o rituale. Ma nell’ebraismo in generale ogni concetto o idea trova espressione in tale sfera, altrimenti rischia di perdere di forza e pertinenza. Solo un qualche tipo di cerimonia pubblica veicola in maniera profonda e non ambigua l’ideale che ho appena esposto. In tal modo, la ritualità acquista il suo senso, che è quello di essere mezzo di espressione di ideali, e non un fine in sé, che la trasforma in ritualismo.

 

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DOPO GLI ATTENTATI: VEGLIA E TORPORE

(articolo pubblicato marzo 2015 in HaKeillah, Bimestrale del Gruppo di Studi Ebraici di Torino)

 

L’effetto dello shock che ha seguito i fatti di Parigi va progressivamente riducendosi, man mano che il tempo passa e la gente ritorna alla normalità. Ma è proprio adesso, a testa fredda e cuore calmo, che bisogna sapersi interrogare. Sul passato, sul presente, sul futuro. Mi pare, infatti, evidente che quanto accaduto in Francia non sia un episodio isolato, ma appena la punta di un iceberg di qualcosa di molto più profondo. La tempestiva azione del governo francese nell’affrontare la situazione di grave crisi sembra aver rassicurato molte persone. Il nostro istinto di sopravvivenza ci spinge in questa direzione, perché sarebbe difficile, altrimenti, vivere con la consapevolezza di un grande pericolo, mentre ogni essere umano ha bisogno di sentirsi fiducioso per costruire il proprio futuro. Ma l’ebraismo, da sempre, è fondato su una buona dose di diffidenza verso gli istinti e le tendenze naturali. “E voi non vi distrarrete seguendo il vostro cuore e seguendo i vostri occhi, dietro i quali vi prostituireste” (Numeri 15:39).

 

Purtroppo sovente gli ebrei hanno avuto una visione alterata di quella che è la realtà. La Torà ci mostra, infatti, questo popolo liberato dalla schiavitù che passava la maggior parte del suo tempo a lamentarsi e a rimpiangere l’Egitto, il vitto abbondante e la vita tranquilla che vi trascorreva. Si trattava probabilmente di una idealizzazione del passato, che generava una visione ottimistica di un futuro in cui gli ebrei, tornati in Egitto, avrebbero potuto essere accolti diversamente. D’altra parte, il Faraone non aveva forse inseguito i figli di Israele per convincerli a tornare?

Il popolo ebraico nel deserto continua, quindi, ad essere attratto dalla calamita egiziana verso la quale spera di tornare, soltanto perché, a causa della durezza di questo lungo peregrinare, ha bisogno di idealizzare l’Egitto che in passato lo aveva accolto, nutrito, apprezzato. Ma ecco che “sorse in Egitto un nuovo Faraone che non conosceva Giuseppe” (Esodo 1:6). A volte i tempi e le condizioni sociali cambiano e un luogo che prima favoriva una vita ebraica diventa minaccioso e irto di pericoli. È lecito chiedersi se oggi qualcosa di simile non stia succedendo in Europa, in generale, e in Francia, in particolare.

 

Ma perché sempre gli ebrei? Siamo ben consapevoli che tutta l’Europa subisce gli effetti di una crisi che non è esclusivamente economica, ma anche e, soprattutto, identitaria, una crisi che pare rimettere in questione la sua natura e le sue basi democratiche. Tuttavia, gli ebrei restano sempre, a volte soli a volte in compagnia, nel mirino degli artigiani dell’odio. La giustificazione classica è: a causa dell’antisemitismo, che si nutre dei conflitti religiosi e intercomunitari, e a causa del conflitto israelo-palestinese. Questa risposta contiene, però, una profonda imprecisione. Più che di antisemitismo si tratta a nostro avviso di antiebraismo. Gli ebrei sono ben lontani dall’essere tutti “semiti”, così come molti semiti non sono affatto ebrei. Gli ebrei, cioè, sono presi di mira non tanto in quanto individui o membri di una classe sociale o di un gruppo etnico, ma proprio in quanto portatori e custodi di una cultura, l’ebraismo, che non è semplicemente una religione, né una forma di teologia politica, ma piuttosto un modo di rivolgere il proprio sguardo verso il mondo e verso l’essere umano. Precisamente questo sguardo non è mai stato perdonato all’ebraismo e agli ebrei che ne sono i portatori.

 

Un ebraismo inteso in primis come pratica culturale (e non soltanto come religione da professare) finisce inevitabilmente per decostruire le diverse forme di idolatria, cioè le abitudini, le tradizioni e alcuni dei valori dominanti nelle società dei gentili. È, dunque, questo aspetto che le società non hanno mai tollerato perché foriero di un pensiero critico e libertario. L’ebraismo è per sua natura iconoclasta: distrugge gli idoli ideologici, non teme di mostrarne i pericoli e nega l’onnipotenza dell’uomo, delle sue istituzioni e di tutti i sistemi di pensiero che possiamo definire “totalizzanti”. Contrastare l’idolatria significa proprio favorire un atteggiamento di resistenza alle norme e alle convenzioni della maggioranza, pratica che si spinge ben al di là dell’ambito strettamente religioso. I Saggi hanno spiegato che la parola Sinai è simile alla parola Sin’à, odio (TB Shabbat 89a), sottolineando che questa caratteristica di resistenza e di autonomia dello spirito, che proviene dalla nostra tradizione, avrebbe necessariamente generato una reazione di odio presso gli altri, poiché l’ebraismo è nella sua essenza spirito di protesta, di disobbedienza e di dissenso e, dunque, atto di resistenza.

 

Il patriarca Abramo lascia il suo paese natale per sottrarsi al modello culturale mesopotamico che vuole che il destino di un uomo sia deciso dagli astri ed è immaginato dai Maestri come un uomo che frantuma letteralmente gli idoli del padre. Mosè uccide volontariamente un egiziano per sottolineare il fallimento di quel modello sociale che legittima l’ineguaglianza tra gli uomini. Prima di uscire dall’Egitto, gli ebrei devono prendere e custodire per tre giorni un agnello, animale considerato sacro dagli egiziani, per poi sacrificarlo, allo scopo di uccidere simbolicamente l’idolatria nella quale è possibile dominare e umiliare l’altro, negando il suo diritto a esistere. L’ebraismo ha sempre agito come forza di resistenza contro tutte le forme di pensiero unico.

 

Passando dall’antico Egitto alla situazione attuale, vediamo che il modello francese di integrazione è del tutto fallito e non è detto che si riesca a elaborarne uno nuovo prima che sia troppo tardi. Anche l’idea di laicità che è stata sostenuta in questi anni non ha avuto successo, probabilmente perché non è né realistica né ragionevole e, in taluni casi, viene applicata in modo inefficace, infatti, nonostante la proibizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, non è raro che nelle scuole della Repubblica gli alunni preparino il Natale per un intero mese scolastico. Questo discorso meriterebbe, naturalmente, un maggiore approfondimento, ci basti dire in questa sede che tale modello assimilazionista, in cui qualsiasi diversità è negata e soffocata nel nome di un malinteso senso dell’uguaglianza, quand’anche non venga ridotto a pura retorica, non possa comunque funzionare in un mondo in cui, al contrario, cresce il bisogno di identità, soprattutto presso le nuove generazioni che crescono lontano dalle loro radici senza essere veramente integrate nelle società europee. Il modello francese chiede a ogni gruppo di negare la propria specificità e quindi la propria esistenza “particolare”, richiesta che oggi appare obsoleta e, in fondo, anche assurda. Inoltre, questo modello di laicità, basato su una netta separazione tra la sfera pubblica e quella privata, può difficilmente essere applicato a delle culture che, come l’ebraismo, non sono limitate al campo della religione, finendo quindi col mettere in evidenza una profonda incomprensione di queste stesse culture. Anche dopo i fatti di Tolosa, non sembra che il governo e i cittadini francesi abbiano valutato la gravità del processo in corso. Per citare lo storico Georges Bensoussan “si è fatto come il solito in questo Paese, abbiamo rifiutato di vedere e di dare un nome, abbiamo gettato la polvere sotto il tappeto. Non abbiamo fatto altro che rinviare l’esplosione”.(http://www.marianne.net/ou-sont-territoires-perdus-republique-2015).

 

Inoltre, nelle grandi manifestazioni che hanno seguito gli attentati c’erano molti meno meno “Je suis juif” che “Je suis Charlie”, cosa che non è sfuggita alla stampa internazionale. Questo dimostra che, nonostante tutto, il fatto di essere assassinato in quanto ebreo è un fatto, certamente poco simpatico, ma che rientra nelle abitudini ed è quindi tollerabile, mentre non lo è, nel caso in cui vengano uccisi dei giornalisti.

 

Ci sembra, infine, fondamentale che gli ebrei non si facciano sedurre dagli slogan pronunciati con troppa facilità da alcuni membri del governo e dalle promesse rassicuranti che li accompagnano. Occorre considerare seriamente la possibilità che la Francia, come forse anche altri Paesi europei, possano non essere più luoghi sicuri per i cittadini ebrei. Dobbiamo chiedercelo soprattutto per le future generazioni, che rischiano di pagare il prezzo delle nostre attuali scelte.

 

Non sappiamo dove questi interrogativi ci condurranno, ma nello stesso tempo è bene continuare a interrogarci, senza il timore di dispiacere a qualcuno, né agli uomini né e Dio, che ha mantenuto in vita l’essenza del popolo ebraico. E non si tratta in questo caso di un semplice problema di sopravvivenza, ma piuttosto di riuscire a trovare dei contesti in cui sia possibile vivere ed esprimersi pienamente, affinché non si creda di vivere, mentre non si fa che sopravvivere. Per questo serve agli ebrei di oggi una riflessione profonda, per mantenere uno stato di veglia vigile e non di torpore.

 

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IL TAGLIO DELLA CONDIVISIONE

(Articolo pubblicato in giugno 2014 in Keshet, Rivista di vita e cultura ebraica)

 

In una risoluzione del mese di Ottobre 2013, il Consiglio d’Europa ha assimilato la circoncisione a una violazione dei diritti del bambino e della sua integrità fisica. Questo avvenimento non è isolato, giacché negli ultimi anni diverse istituzioni in diversi paesi europei avevano denunciato la circoncisione in modo aggressivo. In un’Europa nuovamente percorsa da vibrazioni antiebraiche, questo avvenimento ha risvegliato antichi fantasmi, e ha mostrato la necessità di una migliore comprensione di questo e di altri atti religiosi, sia da parte degli ebrei che dei non ebrei. Per chiunque non desideri un ebraismo basato esclusivamente sulla ripetizione automatica di gesti meccanici, è quindi fondamentale un approfondimento.

                                                     

La circoncisione è un atto di notevole importanza nella tradizione ebraica, tanto che, perfino negli ambienti più laici, è considerata meritevole di grande rispetto, ed è praticata anche da famiglie ebraiche non osservanti. Nelle pagine che seguono indicherò alcuni possibili paradigmi teorici di riferimento al fine di mostrare le ragioni spirituali e simboliche di tale atto. Sarebbe, però, a mio avviso, problematico affermare che la circoncisione possa assumere un solo e preciso significato nell’ebraismo, tradizione culturale che, come sappiamo, non ama il pensiero unico. Essa si presta piuttosto, come cercherò di mostrare, a una pluralità di letture possibili. Presenterò una piccola parte di queste letture, nell’intento di tracciare un breve schizzo della ricchezza delle riflessioni che accompagnano un rito così profondamente ancorato nella cultura e nella vita degli ebrei.

Prima di passare a questa analisi, è però necessario introdurre il soggetto chiarendo alcuni punti.

 

Considerazioni generali

 

In questi anni assistiamo a diverse battaglie sui particolarismi, specie di tipo religioso. Fra i soggetti più dibattuti ci sono, oltre alla circoncisione, la macellazione rituale e la liceità di indossare simboli religiosi in aree pubbliche. Questo tipo di conflitti ideologici è dovuto al grande sviluppo numerico delle comunità musulmane, perché il problema non si poneva davvero fino a quando certi atti erano compiuti dagli ebrei in proporzioni molto modeste,  come fanno notare Dov Maimon e Nadia Ellis in un articolo scritto per il Jewish People Policy Institute[1]. L’Europa si misura non senza difficoltà con il multiculturalismo, e queste polemiche costituiscono senza dubbio l’espressione di questo disagio, ma possono facilmente essere poi utilizzate a fini ideologici quantomeno problematici per nutrire pregiudizi molto pericolosi.

In tale clima culturale e sociale, è a mio avviso fondamentale che ebrei aperti e moderni sappiano entrare nell’arena del dibattito, senza sottrarsene. D’altra parte però, è difficile non notare che l’atteggiamento del Consiglio d’Europa rispecchia una posizione del mondo occidentale, che è antica quanto l’impero romano. Tale impero, che si vedeva al centro del mondo, aveva ereditato dalla cultura greca un certo disprezzo per i barbari, ossia coloro che non condividevano gli stessi schemi culturali. Per questo è lecito allarmarsi quando è possibile vedere, dietro a certe posizioni, il riflesso di una volontà egemonica, quasi una sorta di imperialismo culturale che è a sua volta espressione di un complesso di superiorità spesso basato sulla superficialità e sul pregiudizio. Da un lato le diverse comunità devono imparare a coltivare l’apertura al dialogo e all’autocritica, perché non è pensabile che in nome del multiculturalismo qualsiasi cosa sia ammessa. Dall’altro però, anche le istituzioni democratiche devono saper comprendere quando certi atteggiamenti, che spesso veicolano una forma di debolezza, rischiano di compromettere equilibri delicati, di alimentare pregiudizi e di generare situazioni di grave difficoltà.

 

L’aspetto medico

 

Anche se questo aspetto va al di là degli scopi di questo articolo, alcune precisazioni si impongono.

Intanto va sottolineato che, oltre a non avere nessun tipo di conseguenza negativa dal punto di vista medico, diversi studi hanno mostrato come la circoncisione sia una pratica efficace nel ridurre il rischio di contrarre il virus HIV[2]. Questo deriverebbe dalla natura permeabile della mucosa del prepuzio, le cui cellule dendritiche sono molto sensibili al virus. Apparenetemente quindi, quando Filone d’Alessandria[3] in epoca romana raccomandava la circoncisione per motivi di salute, malgrado le limitate conoscenze mediche dell’epoca, dobbiamo pensare che i suoi argomenti avessero comunque una base reale, anche se lui applica la cosa a patologie allora più diffuse, dicendo che la circoncisione  “… Assicura protezione dalla malattia severa e quasi incurabile del prepuzio detta antrax o carbonchio, così chiamato, credo, a causa del fuoco lento che instaura, e alla quale coloro che conservano il prepuzio sono più sensibili.”[4]

 

Va inoltre detto che la risoluzione del Consiglio d’Europa assimila la circoncisione all’escissione clitoridea o all’infibulazione, amalgama questa che purtroppo è spesso presente in questo tipo di prese di posizione. Tale confusione, di cui vedremo le radici storiche nel seguito di questo articolo, non ha ragione di essere, perché l’equivalente maschile di tali mutilazioni sarebbe l’ablazione completa del glande, e non quella del prepuzio che non ha alcun effetto sulla vita sessuale dell’individuo. La differenza è talmente evidente che quando si assimilano cose talmente diverse, sorge spontaneamente il sospetto che vi sia una volontà di screditare l’atto, e attraverso di esso coloro che lo praticano.

 

Un altro aspetto importante è che da un lato ci si preoccupa del benessere del bambino, che è senza dubbio un elemento fondamentale, ma dall’altro si tende a dimenticare che la costruzione del bambino necessita anche di una coscienza identitaria chiara, la cui assenza è senza dubbio più pericolosa per il suo sviluppo individuale rispetto alla circoncisione. Tale idea è presente nella posizione del General Medical Council (l’ordine dei medici britannici), secondo cui, anche senza attribuire benefici particolari di ordine medico alla circoncisione, si prende atto che la sua assenza è suscettibile di generare un malessere dovuto a difficoltà d’integrazione del giovane all’interno della sua comunità d’appartenenza. Considerati i danni psicologici che ciò può comportare, ossia l’assenza di legami con le radici e la storia familiare, solo i genitori sono in grado di comprendere la migliore scelta a tale riguardo, e secondo il General Medical Council i medici devono quindi accettare tale scelta.

 

A questo punto possiamo passare al cuore del soggetto, che è l’importanza e il significato della circoncisione.

 

Il nome

 

Il nome ebraico della circoncisione è Berit Milà, l’alleanza del taglio o della parola. Il termine Berit deriva da una radice verbale che significa anche « tagliare, togliere » e ciò rimanda al fatto che le antiche alleanze venivano spesso stipulate attraverso la divisione di una tavoletta o di un altro oggetto, di cui ciascuna delle due parti contraenti il patto conservava la metà, in modo tale da poter dimostrare, in caso di bisogno, di aver effettivamente sottoscritto l’alleanza in questione. Milà, quindi, significa « parola » ma anche « taglio ». L’idea è che, così come la parola esprime il mondo interiore di colui che la utilizza, così la Milà ha lo scopo di mettere a nudo la dimensione spirituale dell’individuo. Spingendoci oltre, questo significato deriva anche dal fatto che quell’insieme di grafemi che noi definiamo « parola », risulta nella lingua ebraica antica dall’operazione di découpage, di suddivisione in sezioni più piccole, di un testo originariamente scritto senza cesure, che richiede di essere sezionato per poter acquisire un senso chiaramente compresibile. Questa serie di cesure operate sul testo dà origine alle parole.

 

Il contesto antico

 

Per comprendere meglio il peso della circoncisione nella tradizione ebraica può essere utile soffermarsi brevemente sul contesto storico e sociale nel quale tale rito si è sviluppato.

Nel mondo antico, la circoncisione era largamente praticata dagli egiziani e da altre popolazioni del vicino Oriente, ma era, invece, disprezzata dai greci e dai romani, le cui sculture mostrano sovente l’organo sessuale maschile con un prepuzio ben scolpito, tranne che nel caso dei satiri o dei barbari. L’importanza del prepuzio e, in particolare, di un prepuzio abbondante, era tale che gli artisti in generale facevano attenzione a rappresentare dei prepuzi che fossero abbondantemente più lunghi del membro, in maniera pressoché innaturale, e ciò anche quando il pene veniva mostrato in posizione eretta. E’ con tutta probabilità per questa ragione, per evitare che il prepuzio si ritirasse lasciando scoperto il glande, che gli atleti greci portavano un kinodesmo, una specie di tessuto che copriva l’estremità del membro.

Claudio Galeno, medico greco del II sec. e.v. scrive : « La natura è prodiga di ornamenti soprattutto nell’uomo. Molte parti del corpo hanno una funzione ornamentale, anche se questa è spesso nascosta dalla loro funzione. Le orecchie, ad esempio, mostrano un’evidente natura ornamentale; così è, suppongo, anche per la pelle chiamata prepuzio [p?s??] alla fine del membro e per la carne dei glutei».[5]

Al di là dell’aspetto estetico, il membro maschile coperto dal prepuzio era considerato anche come più degno e modesto.

La cultura ellenistica considerava la circoncisione una pratica degradante e assimilava la perdita del prepuzio a una mutilazione, come possiamo constatare a proposito delle critiche avanzate da Erodoto[6] nei confronti degli egiziani che la praticavano. Possiamo inoltre osservare che scrittori come il geografo Strabone[7] o Diodoro di Sicilia[8] descrivono la circoncisione come una variante della castrazione, generalmente accompagnata dalla pratica dell’escissione femminile. Sarebbero stati, secondo loro, gli ebrei a importare queste due pratiche dall’Egitto[9]. Vediamo, dunque, come questa confusione tra circoncisione e escissione femminile, spesso evocata ancora oggi dai detrattori della circoncisione, abbia radici molto antiche. Inoltre, il fatto che Strabone mostri l’importanza della circoncisione presso gli ebrei identificandola con una forma di oppressione tirannica imposta dalla classe sacerdotale, unito a certe raffigurazioni greche in cui degli schiavi appaiono circoncisi, sembrano suggerirci che presso alcuni l’idea stessa della circoncisione poteva essere facilmente confusa con forme di controllo sessuale imposte agli schiavi tramite pratiche di castrazione più o meno pesanti, che potevano andare dall’ablazione del prepuzio fino a quella del glande[10] o di tutto il membro virile.[11]

Questo genere di background etico e culturale non poteva non generare un forte rigetto della circoncisione nel mondo greco-romano, cosa che ebbe come conseguenza i numerosi divieti di praticarla, basti pensare all’interdizione sotto il sovrano seleucide Antioco IV nel II sec. a.e.v. e sotto l’imperatore Adriano nel II sec. e.v.

E’ importante fermarsi brevemente, al fine di identificare i diversi terreni sui quali l’ebraismo dovrà affrontare tale sfida e ripensare la circoncisione come una possibile risposta a queste visioni così lontane dalla concezione ebraica del mondo e dell’uomo. Vi è da un lato l’aspetto estetico e dall’altro quello più specificamente etico, legato alla visione della sessualità, ma anche alla questione dell’intervento manipolativo sul corpo umano.

 

Un’esigenza per l’uomo

 

Riguardo alla prima questione, dobbiamo osservare che l’idea di un corpo che costituisca un modello di perfezione e di integrità assolute è alquanto lontana dal pensiero ebraico classico, come possiamo riscontrare in diverse fonti.

 

Nel Midrash Tanchumà (Tazria 5) troviamo un dialogo tra Rabbi Akiva e il governatore romano Turnus Rufus, che è rappresentato come il suo interlocutore in diversi passi talmudici.   Il governatore gli domanda perché Dio non abbia creato l’uomo già circonciso, se veramente desiderava che lo fosse. Per tutta risposta, R. Akiva gli mostra delle spighe di grano e del pane, poi degli steli di lino e degli abiti cuciti, spiegandogli che Dio ha donato all’uomo un potenziale, presente in natura sotto forma di materia prima, ma, soprattutto, la capacità di trasformare questa stessa materia, contribuendo così a migliorare il creato realizzandone appieno tale potenziale. Egli ha dato all’uomo la facoltà dell’intelletto affinché possa lavorare la terra per estrarne il nutrimento, e in aggiunta, le altre facoltà per realizzare con i prodotti della terra cibi più elaborati e più gustosi. Allo stesso modo, gli ha dato la capacità di comprendere che con queste materie prime può anche produrre altri oggetti, come i vestiti, capaci di rendere la sua esistenza più confortevole e gradevole. Conformemente a quanto recita il versetto «Elohim benedisse il settimo giorno e lo distinse, poiché in esso aveva cessato da tutta l’opera che Elohim aveva creato per fare » (Genesi 2:3), R. Akiva ne conclude che, al di là di ciò che la creazione offre a prima vista, il ruolo dell’uomo è quello, appunto, di fare, come recita la conclusione del versetto citato. Un fare che significa produrre, agire e trasformare il mondo, in modo da realizzare l’enorme potenziale che Dio vi ha nascosto. Questo principio vale per molti altri aspetti dell’universo, e la natura umana non fa eccezione a questo proposito, esigendo la medesima volontà di trasformazione richiesta dalla terra, per poter produrre dei frutti all’altezza delle sue potenzialità. Tornando alla conversazione tra Turnus Rufus e R. Akiva, è notevole proprio il fatto che Dio non abbia creato l’uomo già circonciso, ma che abbia, invece, lasciato questa responsabilità all’uomo stesso e, per di più, abbia preferito demandarla a un piccolo gruppo di uomini, la cui funzione doveva essere sacerdotale, e non all’umanità intera. Si potrebbe dire che Dio ha lasciato all’uomo la responsabilità di prendere in mano il proprio destino, simbolizzato in questo caso dall’organo deputato alla riproduzione, così come la scelta di modellare il proprio divenire al di là delle sue inclinazioni naturali. Di contro, programmare l’uomo in maniera automatica creandolo già circonciso, sarebbe equivalso a impedirgli di scegliere in quanto soggetto libero e autonomo.

 

Una volta messa in luce questa esigenza, che il pensiero ebraico sviluppa riguardo l’essere umano, appare lecito domandarsi in quale direzione e in che modo il suo agire e le sue potenzialità di trasformazione debbano essere orientate.

 

I veri protagonisti

 

Quando pensiamo alla circoncisione, troppo spesso affrontiamo il discorso dal punto di vista del bambino, che è percepito come il protagonista del rito. Invece, nella visione ebraica, i veri protagonisti sono prima di tutto i genitori, con la facoltà che è loro donata di incidere, letteralmente, il segno dell’Alleanza sui loro figli.        Questo, direi, è l’aspetto centrale di tale gesto. In un certo senso, questo atto rimarrà incompreso, perfino da un ebreo che l’abbia subito in prima persona, fino al momento in cui non deciderà di praticarlo sui suoi figli. Per il tramite di questo segno imposto ai figli, cercherà di trasmettere l’idea che il fatto di far parte del popolo di Israele è un destino pesante, che lascia un marchio profondo e indelebile. Ma, al tempo stesso, questa indelebilità costituisce anche un segno dell’eternità dell’Alleanza così come noi la consideriamo. Nel Talmud (Bavli Menahot 43b) si racconta che il re Davide, trovandosi nudo nella sala da bagno, provasse il timore di non avere più mitzvot[12] divine per accompagnarlo nel suo lavoro di crescita spirituale interiore, ma che fosse infine rassicurato nel momento in cui contemplò la circoncisione, che non si separava mai da lui. In effetti, nelle nostre scelte di vita abbiamo la possibilità di ignorare l’esistenza di questa Alleanza e delle sue implicazioni, ma essa resta, tuttavia, inscritta dentro di noi in una maniera che oltrepassa largamente i limiti della nostra ragione e della nostra logica. Il fatto di avere questo segno su di sè, senza averlo liberamente scelto, è l’unico modo in cui questa idea di appartenenza può essere veicolata, poiché traduce una presenza che ci accompagna costantemente, malgrado noi stessi. E’ il segno di una storia e di una identità che ci sono attaccate e che oltrepassano largamente il fattore strettamente religioso. Appare evidente che solo l’individuo potrà liberamente scegliere di percepire questo marchio come una condanna o come una potenzialità da realizzare, d’altronde, questo ragionamento è valido per molti altri aspetti della propria vita, anzi, forse, per la vita in generale. In tal senso è importante sottolineare un altro punto. Spesso i detrattori della circoncisione attaccano il suo carattere irreversibile, errando. Infatti, dal punto di vista fisico essa è, volendo, reversibile. Di contro lo è molto meno dal punto di vista simbolico e culturale, come la stragrande maggioranza delle scelte che i genitori compiono riguardo a un figlio che, per quanto abbia facoltà di allontanarsi da tali scelte nel corso della sua vita, ne porterà sempre su di sé i segni. Questo, lungi dall’essere una tara, costituisce una ricchezza, e in particolar modo nella cultura ebraica, secondo cui la forza più grande per l’individuo è quella di costruirsi sulle scelte di generazioni di individui che lo hanno preceduto determinando una certa direzione. Per questo gli Avot, i progenitori d’Israele, sono spesso evocati nella liturgia ebraica (penso in particolar modo all’inizio della Amidà, la preghiera centrale quotidiana), perché simboleggiano il primo slancio di un cammino, che come ogni cammino non è certo esente da errori e imperfezioni, ma sul quale tutti noi ci costruiamo.

 

Verso l’integrità

 

Quando Dio chiede ad Avram di circoncidersi, nel capitolo 17 del libro della Genesi, questa prescrizione è introdotta dalla frase : « Cammina davanti a me e sii integro » (Gen 17 :1), ma come può una ferita, una mancanza, contribuire alla possibilità di essere «integro»? Per comprendere meglio dobbiamo ricordare che il termine ebraico Orlà, prepuzio, designa una sorta di chiusura e di blocco, un ostacolo che impedirebbe la piena espressione di una facoltà. Mosè descrive il suo difetto nel parlare, qualificandosi come Arel Sefataim « incirconciso nelle labbra » (Esodo 6:12), e la Torà parla altrove di Orlà del cuore (Deuteronomio 10:16) e delle orecchie (Geremia 6:10). La scelta di questi due organi non è casuale. Se consideriamo che il cuore presso le civiltà antiche era considerato come la sede delle emozioni ma anche del pensiero e della volontà, il vero centro psichico dell’individuo, riusciamo a capire ancora meglio la richiesta avanzata dalla Torà di sbloccare le potenzialità dell’individuo, liberandolo da questa Orlà, questa membrana che gli impedisce di aprirsi all’altro, di « concepire » l’altro, oltre che di ascoltarlo, invece che limitarsi ad ascoltare solo se stessi.

Lo stesso vocabolo Orlà è utilizzato per gli alberi di cui è vietato consumare i frutti durante i primi tre anni di vita (Levitico 19:23). Vediamo, dunque, che anche in questo caso l’immagine evocata è quella di un potenziale nascosto, che è presente ma non ancora pronto a sbocciare pienamente. Non è un caso, infatti, che perfino la fertilità di Abramo si sbloccherà solo dopo la circoncisione, quasi a suggerire un legame tra le due cose.

Ora, uno dei punti centrali dell’ebraismo tradizionale è quello secondo cui ogni principio debba necessariamente esprimersi attraverso il corpo, poiché una convinzione interiore, pur profonda e sincera, non può in alcun modo essere considerata di per sé sufficiente. E’ per questa ragione che diventa necessaria una ferita reale, un taglio tangibile, affinché l’individuo porti su di sé costantemente questa esigenza di vulnerabilità e di apertura verso l’altro, esigenza imperiosa che solo una vera ferita può veicolare. Vivere in maniera integra significa anche vivere pienamente, in profondità e non in superficie, accettando di rinunciare a una parte di protezione, che è talvolta rassicurante, ma che di fatto ci impedisce di vivere in modo pieno.

In questo senso è anche interessante notare che la richiesta fatta ad Abramo come introduzione alla circoncisione, ossia quella di essere/divenire integro, viene formulata con una parola ebraica espressa al plurale, tamim, e non al singolare, tam. Quasi a ricordare che l’integrità non può riguardare solo l’individuo, ma passa necessariamente attraverso la relazione e la condivisione con gli altri, di cui anche il gesto di offrire una parte di sé (il prepuzio, appunto) è simbolo. In questo modello di alleanza, una parte di sé viene condivisa con l’Altro, realizzando una nuova forma di integrità che è quindi anch’essa condivisa.

 

Il sangue

 

Vorrei infine soffermarmi su un ulteriore aspetto specifico della liturgia della circoncisione, che ci ricorda l’importanza di un altro elemento : il sangue. In questa cerimonia, immediatamente dopo aver effettuato l’atto chirurgico, si recita un passo tratto dal libro di Ezechiele : «Passai vicino a te, ti vidi mentre ti dibattevi nel tuo sangue  e ti dissi: vivi nel tuo sangue! Ti dissi : vivi nel tuo sangue! » (Ezechiele 16:6)

Nella liturgia del Brit Milà la citazione si ferma qui, ma il seguito del passo recita : «Ti ho moltiplicata per miriadi, come l’erba dei campi. Crescesti, ti facesti grande e divenisti di una bellezza perfetta; i tuoi seni si formarono e tu giungesti alla pubertà. Ma eri nuda, completamente nuda». La fanciulla di cui si parla nel passo, non è altro che una metafora per indicare il popolo di Israele e il suo stato di estrema fragilità nel momento in cui Dio l’ha adottato. Negli scritti biblici e, in particolare nei testi dei profeti, Israele è solitamente paragonato a una donna. Alcuni hanno visto in questo il rifiuto di un androcentrismo che era piuttosto diffuso presso i popoli antichi, soprattutto presso coloro che occupavano una posizione di dominio, giacché il potere era associato alla forza e all’immagine maschile. Ciò che appare centrale nel passo di Ezechiele, anche in virtù del fatto che è stato scelto nel rito della Milà, è la constatazione che il sangue di cui si parla sia femminile. Al neonato maschio che è appena stato circonciso viene applicata una qualità femminile, quasi fossimo in presenza di una trasformazione. Questo aspetto ha suggerito a Daniel Boyarin, professore presso l’University of California, che vi sarebbe nella circoncisione una sorta di femminilizzazione del maschio, forse causata dall’importanza data in molte antiche culture alla virilità e, in particolare, a una forma di virilità autoritaria e intrusiva. Secondo tale lettura, l’ebraismo proporrebbe, invece, una visione alternativa, in cui il maschio viene guidato su un cammino simbolico d’integrazione del proprio lato femminile, attraverso una perdita di sangue che lo renderebbe in qualche modo più simile a una donna. Secondo il prof. Boyarin si tratterebbe anche di celebrare il fidanzamento/alleanza tra un Israele femminilizzato e un Dio simbolicamente maschio, una metafora assai presente nella Torà. Io vi vedrei, piuttosto, una forma di Imitatio Dei, presso un popolo che considera Dio come il Rahamim, il «maternamente misericordioso», come viene regolarmente chiamato nella Torà. D’altra parte, l’idea di un uomo che si impegni a fare dei suoi figli delle creature più accoglienti e portatrici di vita, come solo una madre è capace di essere, è per un uomo più facile a dirsi che a farsi. Dovremmo, forse, cercare in questa direzione il senso del passo di Esodo 4 in cui Moshé non è in grado di circoncidere suo figlio, mentre, invece, Tzipporà, sua moglie, riesce a farlo. Questo passo sembrerebbe suggerire che a volte una donna ha più attributi  di uomo per tentare di contenere la virilità potenzialmente intrusiva di suo figlio.

Contro l’abuso

Proseguendo in questa direzione, la scelta del pene come sede di questa vulnerabilità fondatrice ci appare, infine, motivata, poiché rappresenterebbe l’abuso possibile, la tendenza al dominio e al possesso dell’altro. Sappiamo quanto l’eccitazione sessuale costituisca una delle forze che più pericolosamente fanno perdere all’uomo (con la u minuscola) il senso dei suoi limiti. Portare questo marchio esattamente là dove la vita viene generata, sull’organo che più di ogni altro può esprimere questo bisogno di dominio e di possesso, è anche un modo per ricordare all’ebreo che il cammino della Torà dovrebbe allontanarci dall’idea del possesso e insegnarci, piuttosto, la reciprocità. E niente ha più valore del fatto di iniziare questo percorso attraverso l’atto di offrire una piccola parte della propria persona come simbolo di questa volontà di condivisione e di rinuncia al possesso, un tratto della personalità che un genitore ebreo dovrebbe aiutare i suoi bambini a sviluppare. E ciò anche contro la loro volontà, come, del resto, per qualsiasi atto educativo.

Quest’ultimo aspetto mi suggerisce un’ulteriore riflessione. Il rapporto tra padre e figlio non è sempre tutto in discesa. E’ disseminato di insidie come qualsiasi altra relazione, ma ciò vale, in particolare, nelle relazioni di parentela. Conosciamo tutti la teoria di Freud, nota come complesso di Edipo, secondo la quale una sorta di ostilità si installerebbe fin dall’inizio nella relazione tra padre e figlio, poiché entrambi devono contendersi l’amore e l’attenzione della madre. E’, infatti, proprio allora che si sviluppa nel bambino una certa paura della castrazione. Non bisogna, peraltro, dimenticare che il figlio è colui che sopravviverà al padre e un giorno dovrà recitare il Qaddish per lui. La sua nascita, foriera di gioia, ricorda però anche al padre che la morte si avvicina, con l’idea che il figlio un giorno o l’altro prenderà il suo posto. Questo aspetto è presente in filigrana nel racconto biblico in cui Avraham circoncide il figlio Itzhak e, nel capitolo successivo, quasi lo sacrifica sull’altare. E’ un racconto che evoca anche l’angoscia, propria a ogni generazione, di dover lasciare il posto a un’altra generazione che è percepita come non all’altezza del compito da svolgere. Questo aspetto è probabilmente ancora più pronunciato nel caso di Avraham, in quanto egli è un precursore, per cui il ruolo di colui che porterà avanti il suo progetto è ancora più critico. In questo senso, la Milà costituirebbe anche una canalizzazione di queste energie negative e dell’aggressività del padre nei confronti del figlio e, al tempo stesso, una forma di assicurazione che questa violenza, contenuta e limitata, rimarrà la sola autorizzata. Giacché ogni genitore è portato, in un determinato momento della vita, a ferire suo figlio; è impossibile che ciò non accada. Quindi questo atto costituisce anche un patto davanti a Dio, allo scopo di attestare che la violenza che il padre userà verso suo figlio sarà circoscritta e giammai abusiva. A partire da quel momento, il padre saprà accettare il suo ruolo di rappresentante e guardiano del passato, disposto a condividere il suo posto con il figlio e persino a lasciarglielo, quando i tempi saranno maturi. La ferita diverrà allora l’apertura a una relazione diversa, a una nuova integrità condivisa, in cui il padre saprà lasciar schiudere il potenziale dell’a-venire, suo figlio, senza ostilità.


[1] http://jppi.org.il/uploads/The_Circumcision_Crisis-Challenges_for_European_and_World_Jewry.pdf

[3] (Alessandria d'Egitto, 20 a.C. circa – 45 d.C. circa), filosofo ebreo di cultura greca.

[4] Filone d’Alessandria, De specialibus legibus 1
[5] Galeno De usu partium corporis humani 11.13. Cit. in Hodges FM. The Ideal Prepuce in Ancient Greece and Rome: Male Genital Aesthetics and Their Relation to Lipodermos, Circumcision, Foreskin Restoration, and the Kynodesme. Bulletin of the History of Medicine 2001;75:375–405.
[6] Storico greco, IV sec. a.e.v.                     

[7] I sec. a.e.v.

[8] I sec. a.e.v.

[9] Strabo, Geography 16.2.37. En The Geography of Strabo, trans. Horace Leonard Jones, 8 vols. (Cambridge: Harvard University Press, 1917–32) vol. 7:285. Strabone parla della circoncisione femminile praticata dagli ebrei in ibid. 16.4.10 (Jones, vol. 7: 323). Cf. Diodorus Siculus, The Library of History 1.28, en Diodorus of Sicily, trans. C. H. Oldfather, 12 vols. (Cambridge: Harvard University Press, 1933–67), 1: 91.

[10] Strabo, Geography 16.4.5 (Jones [n. 44], 7: 315), 16.4.10 (Jones, 7: 323).

[11] Diodorus Siculus, Library of History 3.32 (Oldfather [n.44 ],2:173).

[12] Responsabilità

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EBRAISMO PER ADULTI

(Articolo pubblicato in maggio 2014 in HaKehillah, bimestrale del Gruppo di Studi Ebraici di Torino)

 

Una nota boutade umoristica che spesso si sente evocare riguardo alle feste ebraiche recita: “Volevano sterminarci, non ci sono riusciti, mangiamo.” Al di là dell’umorismo, che ci è necessario, a mio avviso questo detto ricorda un aspetto problematico della percezione che molti ebrei hanno dell’esperienza ebraica. L’aspetto di cui parlo è l’esistenza di un “loro” che volevano distruggerci, farci del male, e di un “noi” che, per svariate ragioni, siamo riusciti a sottrarci alle loro crudeli grinfie. E’ innegabile che la storia ebraica abbia purtroppo conosciuto momenti durissimi di persecuzione e di odio, come è innegabile che lo spettro di quest’odio sia presente anche nelle nostre società moderne. Ma questo non dovrebbe condurci a una schematizzazione eccessiva delle cose, che comporta necessariamente una visione ingenua e vagamente infantile della realtà. La festa di Pesah, contrariamente a quanto spesso si dice, non celebra tanto la liberazione del popolo ebraico, quanto piuttosto la nascita di un processo di liberazione possibile ma mai interamente compiuto. Tale libertà non può essere definita per decreto e acquisita da un giorno all’altro, ma richiede maturazione e dev’essere necessariamente frutto di una scelta, altrimenti il soggetto “liberato” altro non sarà che uno schiavo privato di padrone. Ciò accadrà proprio agli israeliti nel deserto, che proprio per questa ragione desidereranno a lungo tornare in Egitto. La filosofa Hanna Arendt, riferendosi alle Rivoluzioni francese e americana, elabora una distinzione non lontana da questa idea, quando scrive: “E’ forse ozioso precisare che liberazione e libertà non sono la stessa cosa; che la liberazione può essere una condizione della libertà, ma è assolutamente da escludere che vi conduca automaticamente; che il concetto di libertà implicito nella liberazione può essere solo negativo, e quindi l’intenzione di liberare non si identifica col desiderio di libertà”[1]. O ancora: “Ma se è difficile tracciare una linea di demarcazione fra liberazione e libertà in qualsiasi contesto di circostanze storiche, questo non significa che liberazione e libertà siano la stessa cosa o che le libertà conquistate come risultato di una liberazione costituiscano tutta l’essenza della libertà…”.[2]

Nel pensiero ebraico classico, la distinzione fra liberazione e libertà è importante. Dalla libertà scaturisce immediatamente la responsabilità, e per questa ragione Pesah è una buona occasione per una riflessione su questi temi alla luce dei testi della Torà.

 

L’inizio della schiavitù ebraica in Egitto è così descritto nel libro del Deuteronomio:Gli Egiziani ci maltrattarono[vayaréu], ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù.” (Deuteronomio 26 :6). Questo versetto è peraltro citato e sviluppato all’interno della Haggadà di Pesah, dove la parola vayaréu, normalmente tradotta come “maltrattare”, viene intesa non come derivante dalla radice ebraica della parola rah, “male”, ma piuttosto da quella di re’ah, “amico” o “prossimo”, come in v’ahavta l’re’acha camocha, “ E amerai il tuo prossimo che è come te” (Levitico 19:18). Quindi, secondo la Haggadà il passo sarebbe da leggere nel senso che gli egiziani si resero prossimi, vicini ai figli d’Israele, e usarono questa vicinanza per poi manipolarli, come peraltro evocato da altre fonti rabbiniche (cf. Talmud Bavli Sotà 11b). Infatti all’inizio il lavoro degli israeliti fu presentato come un contributo che essi davano alla nazione egiziana, e che svolgevano insieme ai loro fratelli egiziani, compreso lo stesso Faraone, ma in un secondo tempo la partecipazione egiziana diminuì progressivamente, fino a quando gli ebrei si trovarono soli a lavorare, e forzati a farlo (Midrash Bemidbar Rabbà Beha’alothà 15:20).

 

Al di là di una certa idea dell’Egitto, che evoca la frusta e le violenze, questa lettura suggerisce che la perdita della libertà non si manifesta sempre attraverso l’imposizione violenta. Anzi, più spesso essa si produce attraverso la dolcezza rassicurante dell’abitudine e della prossimità, in un modo  gradevole che rende la vita addirittura più semplice, attraverso la perdita della necessità di essere responsabili. Per questo è talvolta più difficile riconoscere i segni di questo processo, perché la perdita della libertà e della responsabilità che essa comporta è talvolta cosa gradita. Per questa ragione gli ebrei passeranno una gran parte del tempo nel deserto sognando di tornare in Egitto, il luogo in cui nessuna responsabilità era loro richiesta. Questo è anche il significato di Numeri 11:5 in cui gli israeliti evocano l’Egitto dove erano nutriti “gratuitamente” [hinnam], e Rashi ad.loc. commenta che l’espressione va intesa nel senso che nessuna responsabilità era loro richiesta in cambio. Siccome essi dovevano lavorare per essere mantenuti in vita, null’altro era loro richiesto, se non il fatto di rispettare tempi e scadenze di lavoro. Ma nessuna dimensione etica era presente nella loro vite. Con l’inizio del processo di liberazione invece, la prima responsabilità che si presenta è quella dell’altro, come vediamo in un altro passo biblico.

 

Tutti conoscono il racconto, contenuto nel libro dell’Esodo, degli accesi confronti fra Mosè e il Faraone. Ma al loro interno vi è un passo spesso poco notato:

“E YHVH parlò a Mosè dicendo: ‘Va a dire al Faraone, re d’Egitto, di cacciare i figli d’Israele dalla sua terra’. E Mosè parlò davanti a YHVH dicendo:Ecco, i figli d’Israele non mi hanno ascoltato, come potrebbe comprendermi il Faraone? E io sono incirconciso di labbra!’ E YHVH parlò a Mosè e ad Aronne, e diede loro ordini riguardo ai figli d’Israel e riguardo al Faraone, per estrarre i figli d’Israele dalla terra d’Egitto” (Esodo 6:10-13).

 

Questo passo contiene un elemento bizzarro, ossia il fatto che al verso 13 Mosè e Aronne ricevano istruzioni da trasmettere ai figli d’Israele oltre che al Faraone. Ma quale ruolo questi avrebbero potuto avere, in quanto soggetti sottomessi e senza alcun potere? Quest’anomalia del testo era ben nota già nell’antichità, ragion per cui nella versione greca dei Settanta i figli d’Israele sono assenti dal verso 13, e solo il Faraone, come siamo abituati a pensare, è destinatario delle istruzioni, ossia dell’ordine divino di liberare Israele. I redattori della Settanta, che è comunque di matrice ebraica, si dissero che il testo doveva essere impreciso o corrotto, perché non aveva senso che si chiedesse agli israeliti di liberare gli israeliti!

 

La tradizione orale ebraica classica invece esplora altre strade. Nel Talmud di Gerusalemme (Rosh Hashana 3:5 [58d]) leggiamo che Mosè e Aronne ricevettero l’ordine di istruire gli israeliti riguardo alle norme sulla schiavitù, poi contenute nel capitolo 21 dell’Esodo. Il punto centrale di queste leggi è la necessità di liberare gli schiavi all’arrivo dell’anno sabbatico, perché nessun essere umano può essere proprietà di un altro, al di là del servirlo in modo accidentale e transitorio. Ma in cosa queste leggi sarebbero rilevanti per un popolo che è esso stesso schiavo? Quello che il passo talmudico suggerisce in modo sfumato è piuttosto scioccante, specie se lo colleghiamo ai versi precedenti, in cui Mosè si lamenta di non essere ascoltato neppure dai suoi fratelli ebrei. In altre parole, come potrebbe il Faraone comprendere di dover liberare i suoi schiavi se già gli israeliti, che sono essi stessi oppressi, non sono in grado di liberare i loro? Apparentemente anche gli israeliti, o almeno alcuni di loro, forse quelli più socialmente elevati e vicini al potere egiziano, avevano degli schiavi, presumibilmente anch’essi ebrei o appartenenti a gruppi minoritari. La Torà suggerisce, in un modo estremamente sfumato che richiede molta attenzione, un’immagine di grande forza. Da un lato, nessun potente è così potente da non essere messo in ginocchio, come le vicende dell’Esodo vogliono mostrare, ma dall’altro non esiste essere umano così debole da non poter trovare un essere umano più fragile di lui di cui poter abusare. E nello stesso tempo, se è vero che la malvagità esiste, la sofferenza non rende necessariamente migliori. Anzi, esiste un pericolo reale che chi soffre e non ha possibilità di vedere ridotta la propria sofferenza, non trovi altro sfogo se non quello di schiacciare chi è ancor più debole di lui. L’angoscia che Mosè tenta di esprimere davanti al Divino è quella di aver constatato che i figli d’Israele sono stati corrotti interiormente dalla società egiziana, al punto da non voler rinunciare ai loro schiavi, proprio come l’Egitto non vuole rinunciare a loro. Il gusto del dominio e del potere è troppo inebriante per rinunciarvi, e questa trappola esiste sempre, ovunque, e per tutti. Un noto passo del profeta Geremia (34:9-11) li accusa proprio di questo, come a mostrare che questo tratto rimase impresso negli israeliti a lungo. Questa è forse la violenza più grande che la schiavitù egiziana aveva quindi inflitto a questo popolo oppresso: li aveva disumanizzati al punto che essi non erano più in grado di trattare umanamente gli altri. Essi avevano compreso la gravità di ciò che era stato loro imposto, ma non erano stati in grado di estendere questo insegnamento ad altri. Così come non avevano compreso che le peggiori violenze sono quelle che penetrano la nostra esistenza dolcemente, senza fare rumore, amichevolmente, gli israeliti non avevano realizzato che gli esseri umani sono prima di tutto esseri umani, prima di essere vittime o oppressori. Sono mossi dalle stesse pulsioni e da aneliti simili, che possono facilmente trasformarli in una direzione o in un’altra.

 

E’ troppo comodo ridurre l’esperienza ebraica a uno schema eccessivamente semplificato e infantile, dove l’oppressione e la perdita della libertà si manifestano solo attraverso violenze provenienti dall’esterno e contro la nostra volontà, dove gli altri sono i cattivi oppressori mentre noi siamo le buone vittime. Tale semplificazione  non rende giustizia ai nostri ideali di armonia e di equilibrio dell’universo, che ci impongono una visione realistica dell’essere umano. A livello sia collettivo che individuale, noi siamo spesso complici e corresponsabili di quanto ci accade, e troppo spesso non siamo esenti dai tratti negativi che constatiamo con facilità negli altri. Per questo tendiamo a accorgerci troppo tardi di essere stati manipolati in modo da non poter esercitare il nostro libero arbitrio. Per questo il terreno più fertile per gli abusi è quello delle relazioni più ravvicinate, perché nessuno è esente dal sentimento di dominio sull’altro, che ci può facilmente portare ad essere vittime, o carnefici, di coloro che ci sono più vicini. E nello stesso tempo, dobbiamo tenere conto che spesso siamo portati a ricreare esattamente gli stessi schemi che abbiamo disapprovato in persone che razionalmente non considereremmo come esempi da seguire. Uscire dall’Egitto significa anche rendersi conto di queste realtà, di questi Egitti sempre pronti a richiudersi su di noi. Perché vi saranno sempre nuove forze, in realtà antiche e impossibili da eliminare, per rinchiuderci nei nostri limiti (la parola Mitzràim, Egitto, significa limiti e ristrettezze). Le abitudini, le ideologie, i nostri stessi principi e convinzioni, comprese le più nobili, la religione stessa, ogni cosa è suscettibile di sostituirsi al padrone egiziano, di trasformarsi in un idolo e di obnubilare le nostre facoltà di ricerca della libertà.

 

Da tutto ciò deriva la necessità halakhica di disfarsi del Hametz, il fermento che originariamente era la madre del pane, una parte del vecchio impasto che era conservata e usata per il nuovo impasto, una forma rassicurante di legame col passato. Ma una volta all’anno, in Primavera,  gli ebrei sono chiamati a tagliare i ponti con questo vecchio pane, e a ritrovare la libertà di un cibo diverso, uscendo dagli schemi conosciuti, per avventurarsi in modo nuovo, su una strada nuova.

 

I nostri testi non dovrebbero comunicarci chiusura e dogmatismo attraverso letture infantilizzanti, ma percezioni sottili che ci aiutino in questa difficile valutazione di chi siamo, di come siamo, di come potremmo o dovremmo essere. Al fine di aprire la porta di un ebraismo adulto e moralmente maturo, degno di allontanarsi dalla madre egiziana che lo stritolava nelle sue viscere ristrette [mitzràim], e pronto a crescere alla luce della responsabilità.

 


[1] Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino (1963) 2009, pag 25

[2] Ibid. pag. 29

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DUE EBREI, TRE OPINIONI

I movimenti ebraici al di là delle apparenze

 

L’ebraismo ha sempre conosciuto un elevato grado di pluralismo. Questo elemento è stato vissuto in modi diversi. La popolare festa di Hanuccà per esempio, non è solo riferita alla guerra di un gruppo di ebrei contro il potere ellenistico, ma anche contro gli ebrei ellenizzanti, che perseguivano una politica di assimilazione culturale. Da sempre, infatti, uno dei principali problemi dell’ebraismo è stato quello di mediare fra la necessità di conservazione e stabilità, tipica di ogni cultura religiosa, e il bisogno di un rinnovamento che permettesse alla cultura stessa di non diventare obsoleta a causa delle mutazioni sociali e storiche. Un classico esempio di questo fu l’opposizione fra Sadducei e Farisei alla fine dell’epoca del Secondo Tempio. Secondo Giuseppe Flavio “I sadducei hanno il loro appoggio solo tra i ricchi, e il popolo non li segue, mentre i farisei hanno il popolo come loro alleato.” (Antichità ebraiche 13.298). I sadducei erano infatti una forma di élite aristocratica sacerdotale molto conservatrice. I farisei invece contavano fra i loro seguaci molta gente che svolgeva umili professioni e senza ascendenze particolarmente nobili, ma che si concentrava sullo studio e sulla pratica religiosa con grande rigore. Diversi studiosi hanno mostrato come dal punto di vista sociale, ma anche religioso e legale, la differenza ricalcasse in modo abbastanza fedele quella fra patrizi e plebei nella società romana, che era quella dominante all’epoca (cfr. Louis Finkelstein, The Pharisees: The Sociological Background of TheirFaith). Pur considerando il tempio come una realtà di grande importanza, i farisei elaborarono una tradizione orale molto più ardita e innovativa, forse anche perché sentivano che l’epoca del tempio e dei sacrifici stava per concludersi. I sadducei scomparirono nel nulla, mentre tutti i generi successivi di ebraismo, compresi quelli moderni, non possono che dirsi neo-farisaici.

 

Vi è poi l’aspetto etnico/geografico, che rese necessario un adattamento di leggi e costumi a tradizioni locali. Abbiamo quindi una versione del Talmud di area israeliana, e una più completa babilonese. Si svilupparono poi diverse tradizioni sia esegetiche che legali. Per questo quando parliamo dello Shulchan Aruch, uno dei più importanti codici di legge ebraica, non ci riferiamo a un libro, ma alla combinazione di due testi. Il primo, che si riferiva in gran parte alla tradizione sefardita,fu scritto da Yossef Caro (Toledo, 1488 – Safed, 1575), il secondo da Moshe Isserles (Cracovia, 1520 –1572), che indicava i punti in cui gli usi ashkenaziti differivano. Ancora oggi i sefarditi si basano sul primo, gli ashkenaziti sul secondo.

 

L’ebraismo moderno ha dovuto misurarsi con la nuova realtà sociale dell’emancipazione, il cui risultato forse più importante fu quello di trasformare l’appartenenza all’ebraismo in una scelta volontaria. A quel punto il grande dilemma dell’ebraismo divenne quello di capire in quale misura fosse possibile all’ebreo di restare fedele alla sua appartenenza identitaria, nazionale  e religiosa, senza mancare però di rispetto e di fedeltà ai suoi doveri di cittadino.

 

Diversi approcci furono proposti dalle autorità religiose, e tali approcci si cristallizzarono in movimenti ebraici differenti, che schematizzeremo,per chiarezza, mostrando prima le ali estreme, e solo in seguito le parti centrali. Chiarendo che questa analisi è necessariamente imprecisa e parziale, vista la grande complessità del fenomeno. La visione che viene spesso evocata dei vari movimenti ebraici è infatti spesso sbagliata, e vi sono informazioni di notevole importanza che sono sconosciute alla maggioranza degli ebrei, in particolare riguardo alle sfumature interne di ogni corrente (penso, per esempio, all’esistenza di donne rabbino all’interno dell’ortodossia). Senza contare che, come in ogni istituzione, vi è una differenza fra le intenzioni dichiarate e la realtà interna, o fra le idee dell’élite pensante e quelle della “base”. Chi scrive ha un’esperienza diretta di dialogo e di lavoro pluriennale coi responsabili rabbinici e laici di molte diverse correnti ebraiche, che lo portano a conoscere non solo il lato ufficiale, ma anche quello reale, talvolta sommerso ma per questo decisamente interessante, di questi mondi ebraici.

 

Passiamo quindi a una succinta analisi.

 

 

-          Da un lato abbiamo gli ultra-conservatori, la cosiddetta ultraortodossia che non fa concessioni alla modernità, e che continua a immaginare una vita ebraica autarchica, in cui l’interazione pratica e culturale col mondo non ebraico è ridotta al minimo, e spesso vissuta con grande disagio. Espressioni di questo disagio si ritrovano anche nella volontà di evitare riferimenti a espressioni culturale e religiose non ebraiche. Esponenti di questo tipo di ebraismo, in un paese come l’Italia non nomineranno neppure una piazza contenente l’espressione “Santo”, per esempio San Babila, ma diranno piuttosto “Sbabila”. Questo può far sorridere, ma il parallelo, più inquietante, è quando nelle scuole ebraiche si vieta ai ragazzi l’accesso alle chiese nel corso di viaggi e gite culturali, o quando, come chi scrive ha constatato recentemente in una grande scuola ebraica francese, i responsabili ordinano agli insegnanti di cancellare manualmente la parola “chiesa” nei libri di lettura per bambini. Di fatto questo tipo di ebraismo vive in una situazione costante di auto protezione e conservazione attraverso l’isolamento.

-          All’estremo opposto troviamo gli ultraliberali, che considerano l’ebraismo come una cultura e una tradizione, ma senza nessun elemento di tipo obbligatorio, per cui ogni ebreo ha il diritto totale di scegliere in piena libertà qualsiasi cosa gli interessi all’interno del vasto patrimonio ebraico, senza limite alcuno, o di trasformare a piacimento qualsiasi aspetto della vita ebraica per farlo corrispondere a quello che crede. In tale prospettiva, nulla di scioccante nel considerarsi per esempio ebreo ma contemporaneamente anche buddista o altro (si tratta di un fenomeno in grande crescita), o nel voler sposare una persona ebrea con un rito misto a cui partecipano diversi ministri di culto di diverse religioni, cerimonia che infatti molto rabbini appartenenti a quest’area celebrano con gioia. Se la grande apertura di questo movimento è spesso seducente per l’ebreo moderno desideroso di una sempre più grande integrazione, il risultato può essere talvolta quello di uno strano sincretismo, per esempio l’elaborazione di feste come ChrisMukka, unione di Christmas e Hannukka dove alberi di Natale e luci di Hanuccà si fondono per la gioia di tutti.

 

Desidererei soffermarmi un istante su alcuni aspetti. Anche se ho voluto sottolineare dei lati estremi, e forse caricaturali, di queste correnti ebraiche, è innegabile che esse sono espressioni di volontà non prive di interesse, e anche piuttosto condivisibili. Nella chiusura di certi movimenti ebraici vi è l’espressione di un timore nei confronti di tutto ciò che potrebbe indebolire la struttura tradizionale ebraica, e anche se questo aspetto è portato a livelli estremi, non dobbiamo dimenticare che l’ebraismo rimane una cultura minoritaria e fragile, che non va solo coltivata, ma anche protetta.

D’altro canto, l’apertura di un certo ultraliberalismo, si basa sull’idea che, dal momento che essere ebrei è diventato una scelta, qualsiasi elemento che un ebreo scelga di mantenere o incorporare nella propria vita costituisce comunque un punto positivo. Se desidera una presenza rabbinica al proprio matrimonio misto, o delle luci di Hanuccà sull’albero di Natale, esprime comunque un anelito alle sue radici ebraiche, che ha una sua incontestabile nobiltà. Un’altra cosa che va sottolineata è che oggi la maggior parte degli ebrei di fatto seguono questa via ultraliberale, anche molti cosiddetti “ortodossi non osservanti”, ossia ebrei che magari per diverse ragioni non frequenteranno luoghi ebraici non ortodossi, ma la cui pratica è di fatto ultraliberale.

 

A questo punto, è opportuno passare alle correnti “interne”, che sono spesso più sfumate e complesse. In quest’area troveremo i movimenti Reform, Conservative/Massorti e Modern Orthodox, che hanno fra loro considerevoli differenze, ma che costituiscono una sorta di “centro”, ognuno a modo suo.

 

-          L’ebraismo Reform, sviluppatosi in Germania e negli Usa a partire dal XIX secolo, propone un adattamento piuttosto radicale alla modernità, ma sforzandosi di mantenere la struttura tradizionale della liturgia e dell’osservanza, con una notevole differenza però. In questa corrente la legge ebraica perde il proprio carattere obbligatorio, e di fatto viene considerata soprattutto come una serie di usanze tradizionali, che possono essere adattate alle esigenze individuali e moderne con una certa facilità. L’autonomia di scelta individuale è considerata un elemento fondamentale in tal senso. Va sottolineato che spesso in tale movimento i rabbini mantengono un certo rigore, ma il fatto di uscire dalle categorie tradizionali della vita ebraica come responsabilità obbligatoria (che è la traduzione più corretta del termine ebraica Mitzvà) trasforma ogni scelta ebraica in qualcosa che l’ebreo può decidere o meno di adottare. Ciò che avviene è, purtroppo, quello che gli ebrei ortodossi spesso criticano in questa corrente, ossia che molti scelgano questo ebraismo per facilità, e per non sentirsi troppo in colpa qualora la propria vita ebraica non sia coerente o esemplare. Anche se questo non è quanto le autorità religiose Reform vorrebbero, la tendenza in tal senso è chiara e inarrestabile. Se l’ebraismo Reform delle origini soppresse una gran parte degli elementi della tradizione ebraica (leggi alimentari, uso della lingua ebraica nella liturgia, anelito al ritorno a Sion…), vi è stata poi una fase di rielaborazione nella seconda parte del XX secolo, in cui il movimento ha adottato forme e contenuti molto più tradizionali, sia nella liturgia che nell’atteggiamento nei confronti del sionismo. Le frange che non condividevano tale ritorno alla tradizione religiosa, costituiscono fondamentalmente quell’ultraliberalismo descritto sopra. In alcuni casi, come in Gran Bretagna, assistiamo a una separazione netta fra Liberal e Reform, che costituiscono quindi due branche diverse, ognuna col proprio rabbinato, sinagoghe, e istituzioni.

Va notato che, contrariamente a quanto spesso si creda, e contrariamente anche alle posizioni “ufficiali” del movimento Reform, non tutte le sinagoghe Reform sono paritarie, in una minoranza di esse infatti le donne non contano nel Minian né montano alla Torà. Si assiste poi a un notevole conflitto fra le frange più tradizionaliste della corrente Reform, di fatto molto vicine alla tendenza Massorti/Conservative, e quelle più liberali, in cui assistiamo a notevoli modifiche liturgiche, e una progressiva relativizzazione dell’importanza di elementi religiosi considerati centrali per altre frange del movimento, come la circoncisione obbligatoria.

-          - L’ebraismo Conservative/Massorti (il primo nome è utilizzato negli USA, il secondo nel resto del mondo e in Israele) nasce nel XIX secolo come reazione alla Riforma e ad alcuni suoi aspetti giudicati eccessivi. Fra questi, l’abbandono della lingua ebraica nella liturgia (che la Riforma reintegra poi progressivamente negli ultimi decenni, ma che usa spesso in alternanza alla lingua vernacolare), e del carattere obbligatorio della Halachà, la legge ebraica, che i rabbini del movimento Massorti considerarono come un’espressione fondamentale dell’ebraismo, ma con una componente evolutiva da sempre presente che poteva essere sfruttata per adattarla almeno in parte alla modernità. Con la differenza che, se nella Riforma la legge ebraica diventa soprattutto un elemento culturale suscettibile di cambiamento con una certa facilità, teoricamente nel movimento Massorti vi sono dei limiti, perché il fatto che alcune leggi possano essere modificate dipende dal fatto che vi siano precedenti, oppure opinioni minoritarie ma comunque presenti nella storia del diritto ebraico. Non tutte le modifiche desiderate sono quindi possibili, perché alcune leggi non possono essere cambiate per diverse ragioni di diritto ebraico, e il carattere obbligatorio della legge ebraica resta intatto. In tal modo si mantiene una maggiore continuità con l’elemento tradizionale. Questo almeno teoricamente. Una battuta spesso ascoltata è quella che definisce l’ebraismo Massorti/Conservative come un movimento con rabbini ortodossi e fedeli Reform, il che è spesso corrispondente a realtà. Senza contare che talvolta la ginnastica intellettuale utilizzata dal rabbinato Massorti/Conservative per giustificare alcune scelte legali appare come molto forzata. Questo può far talvolta pensare che la semplice pratica Reform di sopprimere o modificare sostanzialmente alcuni usi perché poco inaccettabili dal loro punto di vista, senza altre giustificazioni, sia in un certo senso più onesta. Certo però, il fatto che almeno il rabbinato Massorti/Conservative si consacri con grande energia alla difficile opera di giustificare legalmente alcune innovazioni seguendo la struttura tradizionale della legge ebraica, garantisce un certo rigore dal punto di vista intellettuale e religioso.

Lo stretching halachico di alcune frange del movimento Massorti ha però portato a secessioni e scismi. Negli anni ’60 un’ala più liberale costituita dai seguaci del rabbino Massorti MordekhaiKaplan crearono un’ulteriore denominazione, l’ebraismo ricostruzionista (non si trattava solo di un maggior liberalismo, ma anche di un’impostazione teologica diversa). Più tardi, negli anni ’80, una frangia rabbinica più conservatrice che contava fra i suoi principali esponenti il grande talmudista David Weiss Halivni, scontenta dell’impostazione eccessivamente liberale del movimento Massorti, si separò dal movimento per costituire l’Union for Traditional Judaism. I temi su cui il conflitto era, ed è ancora, più forte, erano quelli della parità fra uomini e donne nel rito, la posizione nei confronti dell’omosessualità, e un atteggiamento eccessivamente liberale del movimenti nei confronti di innovazioni liturgiche significative.

Anche il movimento Massorti/Conservative non è quindi esente da paradossi. Se di fatto ammette il rabbinato femminile, pochi fra i suoi responsabili laici in pratica accetterebbero una donna rabbino nella loro comunità, e questo in particolare in Europa.

Di fatto, le frange più liberali di tale ebraismo corrispondono a posizioni praticamente uguali a quelle dell’ebraismo Reform più tradizionalista, mentre quelle più tradizionaliste si apparentano all’ortodossia moderna, come vedremo.

-          L’ortodossia moderna, presente soprattutto in Israele e negli USA, tenta di coniugare un rispetto profondo della Halachà tradizionalmente intesa con un’apertura filosofica alla cultura non ebraica e alle scienze. Si tratta di un movimento che conosce anch’esso un certo pluralismo piuttosto ampio, giacché al suo interno si trovano atteggiamenti aperti a notevoli riforme halachiche, specie riguardo al ruolo femminile.  In tali frange più moderniste all’interno della corrente si incoraggia per esempio la formazione di minianim femminili, o la partecipazione attiva di donne per condurre  alcune fasi del culto sinagogale. Inoltre, negli ultimi anni, alcuni istituzioni facenti parte di questa corrente (Yeshivat Maharat a New York, Machon Hartmann a Gerusalemme) hanno esteso la possibilità dell’ordinazione rabbinica alle donne, un cambiamento storico che chiaramente non è stato accolto con benevolenza in altri ambiti ortodossi, ma che è un segno della vitalità di questa corrente e dei suoi sforzi per misurarsi con le sfide del nostro tempo.

Di fatto quindi possiamo dire che le frange più moderniste di tale movimento si confondono con quelle più tradizionaliste della corrente Massorti/Conservative. E, paradossalmente, osserviamo che, laddove in alcune frange minoritarie del movimento Reform e Conservative/Massorti l’idea di una donna rabbino non è accettata, tale opzione è contemplata in alcune frange, anche se minoritarie, dell’ortodossia moderna.

 

Mi pare opportuno citare anche l’ebraismo umanista laico, che però ha una natura profondamente diversa perché i movimenti di cui ho parlato finora sono tutti movimenti religiosi, nonostante le notevolissime divergenze fra di loro.

 

A quanto detto va aggiunto che ogni movimento comporta diverse istituzioni sia laiche che religiose e, fra l’altro, diversi tribunali rabbinici (battè din). Tali tribunali rabbinici hanno orientamenti diversi, spesso anche all’interno della stessa corrente, e questo comporta notevoli problemi. Intanto, i problemi vanno ben al di là di quel che è conosciuto ai più, ossia che per esempio nell’ortodossia gli atti religiosi del rabbinato non ortodosso non siano riconosciuti. Intanto questo non è sempre vero, perché vi sono casi in cui in cui determinati atti religiosi compiuti da rabbini notoriamente rigorosi e osservanti, anche se non ortodossi, sono stati riconosciuti anche all’interno dell’ortodossia. Di contro invece, piuttosto spesso alcuni atti religiosi non vengono riconosciuti all’interno dello stesso movimento di cui faceva parte il tribunale rabbinico che li ha effettuati. Spesso conversioni ortodosse non sono accettate da altri tribunali rabbinici ortodossi, perché chiaramente alcune istituzioni reputano altre istituzioni non sufficientemente ortodosse. Ma incidenti simili avvengono regolarmente all’interno di tutti i movimenti ebraici, in considerazione dei diversi gradi di rigore presenti all’interno. Nel movimento Reform, per esempio, vi sono molte sfumature nei confronti del riconoscimento della patrilinearità, per cui in alcune frange del movimento di fatto viene accettato come ebreo chiunque abbia un’ascendenza ebraica paterna, mentre in altre viene richiesta una conversione, anche se molto agevolata perché considerata una sorta di ritorno. Questa ed altre notevoli differenze comportano confusioni e creano spesso problemi, perché accade che alcune persone cambiando sinagoga o città scoprono nella loro nuova comunità regole piuttosto diverse da quelle della comunità precedente. Talvolta questo avviene anche nella stessa comunità se un rabbino più liberale è sostituito da uno più tradizionalista, o viceversa.

 

Questa mappa pluralistica del mondo ebraico suscita una serie di riflessioni. L’esistenza di una tale varietà comporta inevitabilmente delle disfunzioni, che abbiamo evidenziato. Come accade per qualsiasi analisi, una visione più dettagliata provoca anche necessariamente una maggiore coscienza dei limiti e delle debolezze che sono comuni a ogni istituzione umana. Ma sarebbe ingiusto fermarsi a questo. Questa situazione è anche espressione della grandissima vitalità presente nell’ebraismo contemporaneo. Ognuna di queste sfumature, in questa sede semplificate in modo estremo, corrisponde a uno sforzo reale per rendere  possibile e accessibile all’ebreo del nostro tempo un certo grado di vita ebraica in un mondo che tende a fagocitare tempo ed energie.

Certo però, lo abbiamo visto, questo pluralismo ha anche un costo in termini di confusione e disordine anche riguardo ad aspetti fondamentali, come per esempio la comprensione di chi è ebreo, o di quali sono i doveri fondamentali di un ebreo responsabile. Nell’esercizio del mio rabbinato incontro regolarmente ebrei perplessi e confusi da quello che viene percepito come un disordine. Il problema dell’esistenza di diversi movimenti chiaramente delineati è il rischio di un’accentuazione di questo disordine, a causa dei disaccordi presenti all’interno dei movimenti stessi, oltre che all’esterno. Quel che in origine sarebbe concepito per fare chiarezza, ossia la costituzione di un movimento, di fatto non perviene a farlo, e diventa anzi fonte di ulteriori divisioni. Tutto ciò tende a esacerbare un individualismo già esasperato nella società moderna, creando degli ebraismi à la carte che finiscono poi per lasciare molti individui insoddisfatti. E’infatti noto che l’essere umano ha tendenza a volere sempre di più, di conseguenza se nove elementi su dieci vengono adattati per compiacerlo, esso diverrà molto intollerante per non poter avere il decimo, molto più che se nessuna concessione fosse stata fatta in partenza. Questo tipo di mentalità provoca scismi, scissioni e spaccature in tutto il mondo ebraico. La famosa barzelletta dei due ebrei con tre opinioni. Chiaramente l’aspetto politico ha un ruolo pesante in questo processo, perché il fatto che semplici correnti culturali o religiose si organizzino in istituzioni con un’indipendenza organizzativa, politica ed economica, facilita l’allontanamento dal resto del popolo, perché l’interesse del movimento diviene spesso la priorità.

Dal mio punto di vista, se la libertà individuale e di coscienza è una conquista irrinunciabile della modernità, è fondamentale lottare contro il disorientamento e l’alienazione generati da un’esasperazione del margine di scelta. Dobbiamo sempre considerare il fine ultimo, che è quello di mantenere un ebraismo vivo ma coerente, articolato ma solido, in modo tale da poter resistere a un’assimilazione rampante. Il fatto che molti ebrei oggi considerino la loro corrente ebraica come più importante dell’ebraismo stesso è allarmante. Purtroppo, mi è capitato varie volte, e anche da parte di leaders religiosi, di ascoltare affermazioni come “quando io parlo di ebraismo liberale, per me “liberale” è scritto in grande, “ebraismo” in piccolo”. Questi campanilismi sono semplici forme di una idolatria moderna, l’idolatria del sé e delle proprie convinzioni. La letteratura ebraica chiama questa l’idolatria avodà zarà, letteralmente “lavoro disperso”, perché provoca dispersione di energie di attenzione distraendo dal centro per attirare l’attenzione su dettagli, e trasforma il mezzo in un fine. Abbiamo invece bisogno di punti di riferimento condivisi, e dovremmo lavorare per trovarli. La parola Tzion, prima di indicare un luogo preciso, significa punto di riferimento. Nella Haggadà di Pésach diciamo che i figli di Israelefurono liberati perché erano rimasti metzuyanim (dalla stessa radice della parola tzion, appunto), ossia avevano mantenuto i segni, i punti di riferimento comuni, che li avevano aiutati a non disperdersi, a non esplodere in mille rivoli insignificanti.

La parte centrale della Amidà del pomeriggio di Shabbat, che fa allusione a un tempo messianico a venire, dice “Tu sei Uno, il tuo nome è Uno, e chi sulla terra è un popolo Uno come il tuo popolo Israel?” (trattasi di una citazione di II Samuele 7:23) Nel momento della giornata in cui la pace shabbatica arriva davvero a compimento, ossia verso la conclusione della giornata, questo passo ci ricorda la necessità che il nostro popolo sia davvero unito se desidera proclamare l’Uno, trascendente ed eterno. Ma ne siamo ancora lontani.

Oggi si parla molto, ed è importante farlo, di dialogo interreligioso. Ma, se siamo in grado di parlare con le altre religioni, abbiamo purtroppo molti più problemi di dialogo all’interno dell’ebraismo stesso.

Non si tratta certo di negare l'importanza di un pluralismo ebraico sano e vitale, che deve essere salvaguardato e promosso. Si tratta di saper essere consapevoli quando questo pluralismo diventa una cacofonia, e l’unità si frammenta. Per usare un linguaggio che mi è caro in quanto musicista, l’ebraismo deve, pur mantenendo la possibilità della dissonanza, sviluppare la capacità di trovare punti di riposo, detti in musica cadenze perfette, perché solo quest’alternanza tra dissonanze e consonanze può creare un equilibrio positivo e benefico.

 

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